Il disgusto è un’emozione primaria, universale. La sua funzione più primitiva è favorire la sopravvivenza. Infatti, quando qualcosa suscita disgusto, si mette in marcia una smorfia, composta da una serie di caratteristiche meccaniche ed estetiche. Si arriccia il naso, si storce la bocca, la testa si reclina in avanti, le sopracciglia si avvicinano: tutto un cinema, universalmente condiviso da ogni abitante del pianeta. Questa smorfia è salvifica perché predispone da una parte ad allontanarsi da qualcosa di disgustoso, dall’altra mette in guardia i propri simili: c’è un qualcosa di potenzialmente dannoso, magari mortale o comunque non benefico per l’organismo da evitare.
Tutti e 5 i nostri sensi sono coinvolti, arruolati come soldati fedeli al corpo umano da proteggere. Questa armata entra in azione quando percepiamo un odore acre, troppo intenso, oppure alla vista di scene raccapriccianti. Anche i sapori strani, eccessivamente forti, suscitano reazioni analoghe, in questo caso letteralmente legate al “dis-gusto”, per cui qualcosa risulta sgradevole al palato. Queste sensazioni spesso si associano alla nausea: lo stomaco si ribella a quanto percepito e spinge l’organismo ad espellerlo. Come in una guerra, il nemico viene allontanato con l’intento di neutralizzarlo. Talvolta questo accade anche se non si è effettivamente in pericolo perché il nostro organismo, programmato per difendersi, reagisce a volte in maniera eccessiva, anche se per la giusta causa.
E’ curioso notare come, nel caso del tatto e dell’udito, sia meno immediato pensare al loro coinvolgimento nell’emozione del disgusto. E’ possibile sperimentare ribrezzo nei confronti di una certa consistenza ed è possibile udire un suono spiacevole. Sembra però che, in questi casi, il significato attribuito alla scena (grazie all’utilizzo degli altri sensi) vada a smorzare l’automatismo del disgusto. Si può riflettere sulle ragioni evoluzionistiche di questo: toccare qualcosa può comportare un pericolo minore che ingerirlo? Può essere prioritario individuare visivamente il pericolo rispetto ad udirlo?
Sta di fatto che questi soldati, schierati in prima o seconda linea, ci assicurano da millenni una protezione. Il disgusto è la loro arma, sfoderata non sempre in maniera appropriata ma certamente in buona fede.
Viene da ripensare a tutte quelle volte in cui da piccoli siamo stati sgridati, perché abbiamo detto “Che schifo!” di fronte a un piatto cucinato da un amico di famiglia, che ha voluto cimentarsi in qualcosa di sconosciuto, molto intenso all’odore, al gusto e forse poco appetitoso alla vista. In quell’occasione siamo stati ripresi, perché non si dice “Che schifo!” a tavola, tanto meno davanti a prelibatezze che altri hanno preparato per noi. Qualche volta si sarà trattato di un capriccio, ma altre volte sarà stata una genuina espressione di disgusto, sproporzionata rispetto al pericolo che correvamo ma carica di istinto di sopravvivenza.
L’emozione del disgusto assume anche un significato simbolico: è l’etichetta da applicare a ciò che si ritiene moralmente ripugnante, a ciò che suscita repulsione rispetto ai valori di riferimento e ai tabù della cultura di appartenenza. Ci sono comportamenti, atteggiamenti, scelte che fanno rivoltare metaforicamente lo stomaco. Chissà che, anche nel suo valore simbolico, questa emozione non punti comunque a farci sopravvivere, facendoci indignare, sollecitandoci visceralmente a non accettare ciò che riteniamo disgustoso.
