Usciamo dallo studio!

“Non siamo tutti un po’ psicologi”, è la rivendicazione del momento. Significa che non tutti possono comportarsi come tali, perché per farlo servono anni di studi: senza quelli psicologo non sei, nemmeno un po’.
E’ altrettanto vero però che la psicologia non può restare appannaggio dei professionisti che la esercitano. C’è un’enorme differenza tra conoscere una materia e farne il proprio mestiere. Non è detto che se conosco il diabete, io sappia anche o sia autorizzato a curarlo. In altre parole, di psicologia potrebbero saperne un po’ tutti e solo alcuni essere psicologi.

Forse perché spesso la nostra categoria professionale non viene riconosciuta, ci ritroviamo come soldati a innalzare barricate protettive contro “chi non ne sa”. Ci chiudiamo dentro a cerchie più o meno ristrette di colleghi, lasciando fuori il resto del mondo, che poi è il mondo reale, dove viviamo noi e i nostri pazienti. Finiamo per parlare con noi stessi, ce la cantiamo e ce la suoniamo. A volte produciamo anche una melodia sopraffina, purtroppo però molto esclusiva.

Cosa succederebbe se provassimo ad aprire riflessioni , non solo con chi condivide il nostro sapere? E se fosse una strada concreta per combattere lo stigma associato alla sofferenza mentale?

Far uscire la cultura psicologica, spesso misteriosamente confinata dentro ai nostri studi, è senz’altro un’impresa ardua. Bisogna cambiare linguaggio, adattare la terminologia affinché sia facilmente fruibile, non dare per scontate alcune nozioni. Al contempo però, bisogna rimanere scientifici, attingere da fonti attendibili (che tipicamente non usano un linguaggio elementare) e cercare di non banalizzare i contenuti trattati. E’ un lavoro complesso, che richiede impegno e dedizione, rigore e rispetto per ciò che si sta maneggiando. Quando si ascolta il risultato finale non è nemmeno detto che tutte queste cose siamo riusciti a farle, ma avercela messa tutta è già una soddisfazione. E la melodia si arricchisce.