Usciamo dallo studio!

“Non siamo tutti un po’ psicologi”, è la rivendicazione del momento. Significa che non tutti possono comportarsi come tali, perché per farlo servono anni di studi: senza quelli psicologo non sei, nemmeno un po’.
E’ altrettanto vero però che la psicologia non può restare appannaggio dei professionisti che la esercitano. C’è un’enorme differenza tra conoscere una materia e farne il proprio mestiere. Non è detto che se conosco il diabete, io sappia anche o sia autorizzato a curarlo. In altre parole, di psicologia potrebbero saperne un po’ tutti e solo alcuni essere psicologi.

Forse perché spesso la nostra categoria professionale non viene riconosciuta, ci ritroviamo come soldati a innalzare barricate protettive contro “chi non ne sa”. Ci chiudiamo dentro a cerchie più o meno ristrette di colleghi, lasciando fuori il resto del mondo, che poi è il mondo reale, dove viviamo noi e i nostri pazienti. Finiamo per parlare con noi stessi, ce la cantiamo e ce la suoniamo. A volte produciamo anche una melodia sopraffina, purtroppo però molto esclusiva.

Cosa succederebbe se provassimo ad aprire riflessioni , non solo con chi condivide il nostro sapere? E se fosse una strada concreta per combattere lo stigma associato alla sofferenza mentale?

Far uscire la cultura psicologica, spesso misteriosamente confinata dentro ai nostri studi, è senz’altro un’impresa ardua. Bisogna cambiare linguaggio, adattare la terminologia affinché sia facilmente fruibile, non dare per scontate alcune nozioni. Al contempo però, bisogna rimanere scientifici, attingere da fonti attendibili (che tipicamente non usano un linguaggio elementare) e cercare di non banalizzare i contenuti trattati. E’ un lavoro complesso, che richiede impegno e dedizione, rigore e rispetto per ciò che si sta maneggiando. Quando si ascolta il risultato finale non è nemmeno detto che tutte queste cose siamo riusciti a farle, ma avercela messa tutta è già una soddisfazione. E la melodia si arricchisce.

Rabbia

Quando sono arrabbiato non riesco a pensare, mi sale una roba che mi fa venire voglia di spaccare tutto. A volte mi capita anche di lanciare o rompere qualche oggetto. E’ più forte di me. Mi si annebbia tutto, non riesco a rimanere “civile” nei modi… Come se qualcosa dentro di me esplodesse. Sento caldo, sudo, il mio battito cardiaco accelera, la testa pulsa, il respiro si fa corto. Mi viene da stringere forte i pugni e i denti, sono teso, irrequieto. Se prima parlavo ora urlo, con una forza inaudita, grido finché non mi si rompe la voce e non scoppio in lacrime, ma non sono lacrime di tristezza, grido anche questo. Sono lacrime di rabbia, di quando ti senti talmente ingiustamente ferito che vuoi solo distruggere chi ti ha fatto del male e anche chi non ti ha difeso. Urlo cose che in parte penso, ma che in una condizione di tranquillità avrei saputo trattenere o formulare diversamente.

Ecco la rabbia, un’emozione violenta, potente, che appartiene a tutti indistintamente, indipendentemente dalla cultura, dallo status socio-economico e dall’età. Tutti, grandi e piccini, ricchi e poveri, occidentali e orientali, sperimentano questa emozione, certo con frequenza differente, per ragioni differenti, con modalità variabili, ma la provano tutti. La sua funzione è facilmente intuibile: arrabbiarsi prepara l’organismo a reagire e quindi permette all’individuo di difendersi di fronte ad un torto subito. Ma c’è di più.

Qualche anno fa, un docente della Facoltà di Psicologia disse “La rabbia è come la panna da cucina, copre tutto”. Cosa intendeva? Ci sono circostanze in cui la rabbia sembra pervadere la persona e ci si trova come di fronte ad un bozzolo di collera, abitato per lo più da quell’emozione dirompente. Succede la stessa cosa quando in una pietanza si sente soltanto il sapore cremoso della panna, che copre tutti gli altri ingredienti del piatto. Se qualcuno trabocca d’ira, si tende a percepire prevalentemente quella e molto spesso si cerca di girare alla larga. La veemenza dell’emozione spinge chi la intercetta a fare di tutto per evitare di peggiorare le cose; non viene di certo in mente di approfondirne le cause.
La verità però, è che se reagiamo con rabbia lo facciamo a scopo difensivo, per tutelarci da qualcosa di estremamente doloroso che ci è stato inflitto. In effetti, non si può pensare che per smuovere la macchina meravigliosa che è il nostro corpo, suscitando quella serie lunghissima di reazioni fisiologiche, sia sufficiente un’inezia. Solo quando qualcuno pigia un nostro tasto dolente, tocca un nervo scoperto, gira il coltello in una ferita aperta, ci inalberiamo così. Esistono infatti molte varianti più tenui (e “economiche”) della rabbia: il disappunto, il fastidio, l’essere indispettiti, seccati. Arrabbiarsi seriamente, raggiungendo l’offuscamento della mente e delle intenzioni, è molto oneroso per l’organismo, che si riserva di utilizzare quest’arma solo quando si è gravemente vulnerabili.

Si può allora pensare che la rabbia rappresenti una medaglia a due facce. Una rimanda alla forza della ribellione, alla volontà di combattere per non lasciarsi sopraffare. L’altra faccia racconta invece la debolezza, il tasto da non pigiare, il nervo esposto, la ferita ancora insanguinata. Forse, arrabbiarci e tenere furiosamente gli altri alla larga, ci permetterà di curarla. La rabbia assume così una tridimensionalità: possiamo immaginarla come una reazione energica, un movimento vigoroso volto a ricavare un tempo e uno spazio di intimità dove occuparsi della propria ferita, lontano da tutti perché a volte è un dolore che a malapena riusciamo a guardare noi.