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Tag: milano

Sorpresa

22 aprile 2020da studiosilviamartinelligmailcom

Era dopocena, d’estate, quando il buio arriva tardi e la natura sembra non vedere l’ora di una tregua. L’erba del giardino era tiepida, l’aria meno afosa ma ferma, non si era ancora alzata la brezza leggera che spinge a coprirsi le spalle. Era in corso quella transizione, dove il terreno sospira per il calore accumulato e finalmente tira il fiato, finalmente un po’ d’ombra. 

In questo preciso momento eravamo fuori, vestite con delle magliette nere taglia XXL e i cappelli a punta. Era il nostro travestimento da streghe e ci piaceva usarlo tutto l’anno, non solo in corrispondenza di Halloween. I cartoni animati e i fumetti ci avevano insegnato che la stregoneria può essere utilizzata sempre, a patto di conoscerne i segreti. Eravamo discretamente attrezzate, con delle scope volanti che nella nostra immaginazione atterravano in un punto preciso della casa. Sventolavamo le nostre bacchette magiche (una volta posate usa e getta del ristorante cinese) recitando precisi sortilegi, volti a migliorare il mondo intorno a noi, che stavamo dalla parte dei buoni.

L’oscurità aumentava progressivamente, eravamo vicino alla casa ma dentro le luci erano spente. Mentre riflettevamo sulla nostra prossima missione, nell’aria brillavano delle cosine, piccole, in movimento forse. Non si capiva. Le vedeva solo una di noi? No, le vedevamo tutte. Erano lucine piccolissime e si muovevano. Volavano. Lucciole?! Si!! Si, erano lucciole. Non le avevamo mai viste prima, avevamo capito cos’erano per deduzione, osservandole, provando a prenderne qualcuna ma poi si spegnevano e allora non le trovavi più. Quando le prendevi nelle mani chiuse una sull’altra, delicatamente per non fargli del male, vedevi che erano insetti, semplici mosche, che però, magicamente, facevano questa luce.

Quella sera l’emozione dominante è stata la sorpresa: quelle bestioline hanno suscitato in noi meraviglia e stupore. Un’emozione che, se talvolta colpisce lasciando abbastanza lucido chi la sperimenta, altre volte prende proprio alla sprovvista e fa rimanere a bocca aperta, indipendentemente dalla sua valenza positiva o negativa. 

Se è vero che le emozioni primarie sono caratterizzate da espressioni facciali universalmente condivise da tutti gli esseri umani, viene da interrogarsi sul valore della sorpresa. Quando si tratta di una “brutta sorpresa”, gli occhi spalancati, le sopracciglia alzate, la bocca aperta possono essere un modo per indicare, persino a chi parla un’altra lingua e appartiene a un’altra cultura, che è sopraggiunto qualcosa di inaspettato e negativo. Quando invece la sorpresa è di quelle belle? Che suscitano meraviglia, che fanno stupire e emozionare? Forse siamo “programmati” per condividere anche quelle, forse anche quelle sono essenziali alla sopravvivenza. D’altronde, meravigliarci e sorprenderci significa non conoscere già tutto, significa fidarsi di chi ci mostra qualcosa di nuovo, vuol dire lasciarsi prendere alla sprovvista e chissà, magari godere di uno spettacolo mozzafiato, come quello delle lucciole in una notte d’estate.

Siamo pronti a sorprenderci?

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Disgusto

17 aprile 202017 aprile 2020da studiosilviamartinelligmailcom

Il disgusto è un’emozione primaria, universale. La sua funzione più primitiva è favorire la sopravvivenza. Infatti, quando qualcosa suscita disgusto, si mette in marcia una smorfia, composta da una serie di caratteristiche meccaniche ed estetiche. Si arriccia il naso, si storce la bocca, la testa si reclina in avanti, le sopracciglia si avvicinano: tutto un cinema, universalmente condiviso da ogni abitante del pianeta. Questa smorfia è salvifica perché predispone da una parte ad allontanarsi da qualcosa di disgustoso, dall’altra mette in guardia i propri simili: c’è un qualcosa di potenzialmente dannoso, magari mortale o comunque non benefico per l’organismo da evitare.

Tutti e 5 i nostri sensi sono coinvolti, arruolati come soldati fedeli al corpo umano da proteggere. Questa armata entra in azione quando percepiamo un odore acre, troppo intenso, oppure alla vista di scene raccapriccianti. Anche i sapori strani, eccessivamente forti, suscitano reazioni analoghe, in questo caso letteralmente legate al “dis-gusto”, per cui qualcosa risulta sgradevole al palato. Queste sensazioni spesso si associano alla nausea: lo stomaco si ribella a quanto percepito e spinge l’organismo ad espellerlo. Come in una guerra, il nemico viene allontanato con l’intento di neutralizzarlo. Talvolta questo accade anche se non si è effettivamente in pericolo perché il nostro organismo, programmato per difendersi, reagisce a volte in maniera eccessiva, anche se per la giusta causa.
E’ curioso notare come, nel caso del tatto e dell’udito, sia meno immediato pensare al loro coinvolgimento nell’emozione del disgusto. E’ possibile sperimentare ribrezzo nei confronti di una certa consistenza ed è possibile udire un suono spiacevole. Sembra però che, in questi casi, il significato attribuito alla scena (grazie all’utilizzo degli altri sensi) vada a smorzare l’automatismo del disgusto. Si può riflettere sulle ragioni evoluzionistiche di questo: toccare qualcosa può comportare un pericolo minore che ingerirlo? Può essere prioritario individuare visivamente il pericolo rispetto ad udirlo?

Sta di fatto che questi soldati, schierati in prima o seconda linea, ci assicurano da millenni una protezione. Il disgusto è la loro arma, sfoderata non sempre in maniera appropriata ma certamente in buona fede.
Viene da ripensare a tutte quelle volte in cui da piccoli siamo stati sgridati, perché abbiamo detto “Che schifo!” di fronte a un piatto cucinato da un amico di famiglia, che ha voluto cimentarsi in qualcosa di sconosciuto, molto intenso all’odore, al gusto e forse poco appetitoso alla vista. In quell’occasione siamo stati ripresi, perché non si dice “Che schifo!” a tavola, tanto meno davanti a prelibatezze che altri hanno preparato per noi. Qualche volta si sarà trattato di un capriccio, ma altre volte sarà stata una genuina espressione di disgusto, sproporzionata rispetto al pericolo che correvamo ma carica di istinto di sopravvivenza.

L’emozione del disgusto assume anche un significato simbolico: è l’etichetta da applicare a ciò che si ritiene moralmente ripugnante, a ciò che suscita repulsione rispetto ai valori di riferimento e ai tabù della cultura di appartenenza. Ci sono comportamenti, atteggiamenti, scelte che fanno rivoltare metaforicamente lo stomaco. Chissà che, anche nel suo valore simbolico, questa emozione non punti comunque a farci sopravvivere, facendoci indignare, sollecitandoci visceralmente a non accettare ciò che riteniamo disgustoso.

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Gioia

11 aprile 202011 aprile 2020da studiosilviamartinelligmailcom

Da dove viene la gioia? Dove si trova? Come la si conquista? Come la si trattiene per non farla andare via?
Non esiste una risposta univoca e sempre valida a queste domande. Eppure sulla gioia scrivono in tanti… Alcuni hanno indagato le basi neurobiologiche di quello che accade quando si gioisce, altri hanno spiegato quali cibi, quali ambienti, quali circostanze sono i più adatti per ricreare questa emozione.
Ricercandone l’etimologia, si scopre che probabilmente il significato iniziale della parola “gioia” era riferito a qualcosa di concreto, legato al gioco e al gioiello, che producono piacere, diletto e letizia. Solo in seguito avrebbe acquisito il significato simbolico che conosciamo: ciò che rallegra e piacevolmente commuove. Da notare come la gioia, condizione transitoria, differisca dalla felicità. Quest’ultima rimanda al soddisfacimento dei propri desideri e obiettivi, quindi con un’ottica più di lungo termine. Per questa ragione, si tratta di un’esperienza diversa dall’emozione più fulminea, concisa e sfuggente che è la gioia.

Mi stupisce sempre come la gioia sia così piacevole, così dolce da assaporare ma così volatile: ogni volta che capita veniamo colti un po’ di sorpresa e, tempo di realizzare cosa succede, di goderselo un pochino, puf! La gioia è già finita. Come se nella sua essenza questa emozione fosse effimera, come una zaffata di profumo, buonissima, a volte molto intensa, a cui però basta poco per svanire, qualcosa che non si può acciuffare in maniera definitiva. Un’emozione che svanisce in fretta, o comunque troppo presto, che non basta mai a chi l’ha provata almeno una volta.

Allora ci affanniamo a ricercarla, a creare le condizioni per sentirla di nuovo, a costruire fonti di gioia sicura: ognuno di noi immagina che se si mangerà quel determinato piatto, si recherà in quel luogo specifico, praticherà quello sport, o trascorrerà del tempo con quella persona, quel momento sarà gioioso, renderà gioiosi. Quasi a dire che la gioia non è per forza solo una ventata invisibile, inafferrabile, imprevedibile; forse la si può acchiappare, ricreandola quando possibile o quanto meno tenendo a mente il ricordo di qualcosa di gioioso e tornandoci col pensiero tutte le volte che vorremo. Perché tutti noi abbiamo qualcosa, grande o piccolo, costoso o a buon mercato, raro o comune, lontano o vicino, che ci rallegra e piacevolmente commuove.

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Vergogna

7 aprile 20207 aprile 2020da studiosilviamartinelligmailcom

Frances e Bobbi sono molto amiche, si conoscono intimamente e condividono moltissime cose, tra cui un piccolo appartamento in centro città. 
Un giorno Frances scrive un racconto, tracciando il minuzioso e poco lusinghiero profilo dell’amica, ad insaputa di quest’ultima. Bobbi lo viene a sapere, si sente tradita, venduta, inveisce contro Frances chiedendo spiegazioni. La compagna è sguarnita di giustificazioni e in questo frangente prova una sensazione di stordimento. 
Sul manoscritto che Bobbi le lancia contro, vede le parole contorcersi come piccoli insetti, percepisce una strana energia salire nel petto come fosse il preludio di un forte litigio. Probabilmente Frances sta sperimentando un sentimento di vergogna, assolutamente paralizzante, che manda in corto circuito la mente e il corpo. Tace, si siede sul letto e ascolta: Bobbi fa i bagagli quella notte. Frances sente il rumore delle ruote della valigia nel corridoio e della porta che si chiude. 

La storia è tratta da Conversations with friends, romanzo di esordio di Sally Rooney. Il capitolo dedicato a questo episodio finisce così e quello successivo comincia direttamente con gli avvenimenti della mattina seguente. Frances non dà sfogo ai sentimenti di vergogna, di colpa, di rimorso, che certamente avranno animato la sua nottata. Non racconta niente, glissa e passa al giorno dopo. D’altronde dalle emozioni scomode si sguscia via, più lontano e in fretta possibile. 

La vergogna è di fatto un sentimento tremendamente sgradevole. Ciò che hai commesso è talmente scorretto anche ai tuoi occhi che quasi non riesci a vedertelo addosso, roba da non riuscire a guardarsi allo specchio, da non dormire tranquilli di notte. Persino scrivere sulla vergogna è molto fastidioso, perché fa ritornare con la mente alla sensazione di essere portatori sporchi di qualcosa che non va, qualcosa di riprovevole. È un sentimento disturbante, legato alla consapevolezza o al timore di aver combinato qualcosa che altri giudicano scorretto. Una scorrettezza di carattere morale o sociale, verso la quale gli altri reagiscono con disapprovazione, disprezzo.

Il vocabolario Treccani distingue due sottotipi di vergogna, come a significare che questo sentimento possa essere anche meno intenso. Nella sua versione “light”, la vergogna è un’esperienza vicina alla timidezza, ad una sorta di pudore nell’esprimersi, in parole o azioni. Nonostante le sfumature, questi vissuti sono accomunati da una spiacevolezza di fondo, un disagio palpabile che spinge a nascondere il misfatto o a nascondere se stessi. Si dice infatti: “avrei voluto sotterrarmi”, “avrei voluto sprofondare sotto terra”. In queste situazioni scomode, fonti di imbarazzo, si fantastica spesso di sparire, di andarsene da quella scena, scavandosi una via di fuga dentro al terreno, scomparendo dallo sguardo scontento degli altri personaggi. Si immagina di potersi rifugiare al riparo dal giudizio, lontano dai propri errori. Il più delle volte queste vie di uscita sono effimere fantasie, che una volta svanite lasciano ancora più sconfortati, appesantiti dagli sguardi altrui che insistono a rimarcare quanto siamo stati scorretti. 

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